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Governo Meloni ottiene fiducia al Senato

Governo Meloni ottiene la fiducia alla Camera
Governo Meloni ottiene la fiducia alla Camera

Al Senato la prima donna premier è venuta a difendere la sua «visione dell’Italia», ma anche a fornire quelle «risposte concrete» che le opposizioni polemicamente le hanno chiesto. Giorgia Meloni ascolta dal suo scranno per ore, prende puntigliosamente appunti e lancia occhiatacce a chi azzarda una critica. E quando è ora della replica, si scusa per la voce roca e i colpi di tosse che verranno.

Cinquanta minuti per confermare che innalzerà a 10 mila euro il tetto al denaro contante, giustificare le cariche della polizia alla Sapienza, attaccare Conte, aprire a Renzi e Calenda sul presidenzialismo e smontare i provvedimenti anti-Covid «privi di evidenze scientifiche» dei due governi che l’hanno preceduta: «Non scambiamo la scienza con la religione. Non c’erano certezze che i vaccini facessero bene ai ragazzi di 12 anni».

È il giorno della fiducia, incassata con 115 sì, 79 no e 5 astenuti, tra cui l’ex premier Mario Monti. Ed è anche il giorno del ritorno di Berlusconi a nove anni dall’umiliazione della decadenza. Il fondatore di Forza Italia indossa i panni del padre nobile del centrodestra e non ha con sé foglietti con su scritto «Meloni arrogante e presuntuosa», eppure lo spettacolo è assicurato. Licia Ronzulli, sotto lo sguardo di un incredulo Tajani, ricuce con «Giorgia» dopo l’esclusione dal governo: «Ci hanno rappresentate divise, diverse, ma noi sappiamo quante cose ci accomunano da figlie, madri, donne». Tra la buvette e il salone Garibaldi si incrociano vecchie comparse di successo come Razzi e Scilipoti. Salvini si eclissa per qualche ora. Renzi cita Alda Merini: «La miglior vendetta? La felicità». Il cavaliere annuncia felice la nascita del suo diciassettesimo nipotino e incassa il primo applauso: «Evviva». Ma fino a quel momento la scena è tutta per la nuova premier: «Andrò random da un tema all’altro».

Meloni ringrazia i senatori che hanno consentito un «dibattito franco, rispettoso e composto» e assesta la prima sberla a chi ha governato prima di lei: «Farò una grande operazione verità sulle condizioni dell’Italia che ereditiamo anche da chi ci accusa». Un attacco a tutti i governi di larga coalizione, che avevano «maggioranze distoniche». La sua appare compatta. Eppure, dietro le standing ovation della destra, traspaiono le prime crepe. Accade sul finale, quando il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo chiede a Meloni «un atto di coraggio». Vale a dire, una conferenza per la pace in Ucraina da lanciare insieme con Francia e Germania. Senza gli Stati Uniti dunque: una trovata che finirebbe per disallineare la politica estera di Roma rispetto all’asse atlantico. E c’è anche un avviso sui sottosegretari da mettere in squadra e la tenuta della maggioranza: «Da parte del centrodestra c’è la volontà di governare per cinque anni».

La proposta leghista di alzare il tetto ai contanti ha fatto arrabbiare la sinistra e Meloni prova a zittire il Pd: «Ci sono Paesi in cui il limite non c’è e l’evasione è bassissima. Non siete d’accordo? No? Sono parole di Pier Carlo Padoan, ministro con Renzi e Gentiloni. Metteremo mano al tetto». E ce n’è anche per Conte, che Meloni rimprovera sul presunto conflitto di interessi del ministro Crosetto: «Perché quando era premier Conte non ha venduto le aziende della difesa che producono armi?».

Alle opposizioni la presidente chiede il «coraggio, la lealtà» di parlare nel merito delle questioni. Lo fa Ilaria Cucchi al debutto, ricorda che il fratello Stefano fu ucciso «a suon di botte» quando era nelle mani dello Stato. Ricorda a Meloni di aver subito «ostilità e offese da alcuni esponenti della sua maggioranza», poi critica la polizia per le manganellate alla Sapienza, per gli studenti «affrontati come terroristi», per i «modi violenti, disumani con cui sono stati trattati». A destra partono brusii e «buuu», Meloni con le mani li stoppa e difende gli agenti: «Erano manifestanti che volevano impedire ad altri di esprimere le loro idee». Una cosa che lei, negli anni della militanza giovanile, rivendica di non aver mai fatto.

A parte qualche voce, l’opposizione appare frastornata e incapace di reagire. Finché non prende la parola Roberto Scarpinato, neo-senatore del M5S. L’ex magistrato del maxi-processo Andreotti si lancia in una requisitoria durissima, rimproverando alla destra meloniana di aver «eletto a figure di riferimento alcuni personaggi che sono stati protagonisti del neofascismo e tra i più strenui nemici della nostra Costituzione». Gli alleati gridano «basta!», Meloni cambia nervosamente postura, porta la mano sulla fronte, poi sbotta: «Un approccio così smaccatamente ideologico mi stupisce fino a un certo punto. L’effetto transfert che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico del teorema di parte della magistratura, a cominciare dal depistaggio sulla strage di via d’Amelio. E questo è tutto». E tra gli applausi alla «cara presidente del Consiglio» c’è anche quello di Renzi.

L’alleato riappacificato, l’avversario gentile. Se Giorgia Meloni si trova a giocare in casa, nel secondo round in Senato, è anche per merito di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Uno in maggioranza, l’altro all’opposizione. Ma entrambi capaci di susicitare applausi (il Cavaliere) e aperti sorrisi (l’ex rottamatore) da parte della presidente del Consiglio.

Erano gli interventi più attesi, quelli dei due ex premier. Non hanno tradito le attese. Ma senza sconquassi, anzi. Il Berlusconi che aveva infiammato gli ultimi scampoli di trattativa con il governo è diventato pompiere. Preceduto, nelle fase di spegnimento dell’incendio, dall’inseparabile senatrice Licia Ronzulli, ormai assurta a capa dei “falchi” forzisti che decide all’improvviso di inviare un marcato messaggio di pace a Meloni: “È inutile negarlo: ci hanno voluto rappresentare divise, diverse, ma in realtà sappiamo bene quante cose ci legano e ci accomunano: da figlie, da madri, da donne, da parlamentari esponenti del centrodestra”.

La premier, sorpresa anche lei da tanta affettuosità, fa un sorriso stralunato. Ma è quando tocca a lui, al Cavaliere, che lo show comincia. “Bentornato”, gli dice il presidente del Senato Ignazio La Russa. E Berlusconi, dopo aver limato gli appunti, si concede subito una battuta: “Oggi non farò sfoggio della mia eloquenza, mi sono scritto diligentemente tutto”. E giù un sospiro di sollievo da parte dei big della maggioranza che tremano al ricordo degli audio rubati alla Camera. L’incipit è come al solito a petto gonfio: il leader di FI informa di essere felice perché è nato il diciassettesimo nipotino (figlio di Luigi) e poi esprime la soddisfazione per la rivincita: “Torno a parlare in quest’aula dopo nove anni”. Non rinuncia, Berlusconi, al paternalismo: “Se oggi alla guida del governo c’è una esponente che viene dalla storia della destra italiana, è perché ventotto anni ho fondato una coalizione plurale”. Il resto ruota attorno a una brusca retromarcia rispetto alle plurime dichiarazioni di vicinanza alle posizioni di Mosca: “Non possiamo che essere con l’Occidente, nella difesa di un Paese libero e democratico come l’Ucraina. Su questo la nostra posizione è ferma e convinta”. Non citerà mai direttamente Putin, Berlusconi, se non nell’ennesimo ricordo del trattato di Pratica di Mare, ma le sue affermazioni in aula bastano e avanzano per conquistare il plauso di Giorgia Meloni e del governo, con La Russa a chiamare la claque.

Un pensiero in meno, per la premier, che nel pomeriggio di Palazzo Madama vive visibilmente il suo momento di maggior gaudio nell’ascoltare Matteo Renzi. È divertita, la presidente del Consiglio, per l’incedere ricco di battute di uno dei due leader del Terzo Polo. Non è che Renzi non rivendichi “la diversità” rispetto alla Destra. “In quei banchi – dice rivolto a Meloni – c’è chi ha fatto quota 100 e in questi chi ha fatto Industria 4.0”. E ancora: “Lei ha portato in Parlamento chi diceva che non la cultura non si mangia”. “Ora dice che estrarre gas è giusto e sei anni fa diceva che ero schiavo della lobby del gas”. “Lei dice che non bisogna attaccare l’Italia all’estero, lo ricordi a chi è al suo fianco, a Salvini che durante il referendum costituzionale andava sulla piazza Rossa a scrivere: Renzi a casa”.

Però le parole di Renzi sono concilianti sul presidenzialismo: “Se c’è un’apertura da parte vostra, un no a prescindere è sbagliato”. Ma buona parte dell’intervento di Renzi censura l’opposizione ed è questo che “riscalda” i membri dell’esecutivo che lo ascoltano con silenzio che non dedicano ad altri: “Com’è possibile che il primo tema di discussione contro il governo Meloni sia il nome “merito” dato a un ministero?” E giù a testa bassa contro la capogruppo del Pd Simona Malpezzi: “Era la prima pasdaran a dire che nella Buona scuola bisognava inserire il merito”.

Un senatore dem, Antonio Nicita, rumoreggia, Renzi sbotta: “Vi vedo reagire soltanto a me e non a lei (Meloni ndr), esattamente come in campagna elettorale. I risultati sono stati straordinari…”. Fra i banchi del Pd è una scossa, parte un “stai zitto”, l’ex premier replica: “Lei dovrebbe imparare l’educazione, non dico la politica che è un’impresa complicata”. Ma non finisce qui. Renzi critica i colleghi dell’opposizione (“Ne abbiamo due ed è un problema”, dice sibillino) sulla querelle dell’articolo davanti a “presidente Meloni”: “Il o la? Il punto fondamentale è che la trentunesima presidente del Consiglio è donna dopo 30 maschietti e noi l’attacchiamo sul suo essere donna o sulla rappresentanza femminile nel governo? Non è ridicolo, è masochismo”.

Quindi l’invito urbi et orbi a difendere l’essere mamma della presidente del Consiglio, “la sua libertà e funzione educativa. Diciamo al suo staff di lasciarle tempo per giocare sul divano con sua figlia”. Meloni sorride più volte, mentre il centrodestra applaude ripetutamente. Berlusconi rassicura la maggioranza, Renzi la seduce. E la nave di Giorgia va.

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