
Matteo Renzi
«Ci chiameremo Italia Viva». Matteo Renzi prima della registrazione di Porta a porta risponde così a Bruno Vespa che gli chiede il nome della nuova formazione politica. «Il nome della nuova sfida che stiamo cercando di lanciare sarà Italia Viva. Il tema è che vogliamo parlare a quella gente che ha voglia di tornare a credere nella politica».
«Il tema è parlare, non fare una cosa in politichese, antipatica, noiosa ma parlare a quella gente che ha voglia di tornare a credere nella politica», ha detto Renzi a margine della registrazione di ‘Porta a Porta. E ha aggiunto: «Io voglio molto bene al popolo del Pd, per 7 anni ho cercato disperatamente giorno dopo giorno di dedicare loro la mia esperienza politica. Dopo di che le polemiche, i litigi, le divisioni erano la quotidianità».
«Io resto a fare il mio lavoro nel Pd, non condivido la scelta di Matteo, sono ancora convinto che ci sia uno spazio importante per i liberaldemocratici come me. Voglio chiarire una cosa prima di tutto: non sarò mai un nemico di Matteo, mai diventerò un suo denigratore. Matteo Renzi resta il protagonista di una straordinaria stagione di governo, il patrimonio di quegli anni resta a disposizione del centrosinistra anche per il futuro. Io nel Pd mi sento ancora a casa mia, se si dovesse trasformare in un soggetto sempre più simile al Pds, mi sentirei un estraneo. Non credo che succederà, resto tra i democratici anche perché ciò non accada», scrive su Facebook il capogruppo Pd al Senato.
Vespa, nel corso della registrazione, ha annunciato che Matteo Salvini si è detto disponibile al confronto con l’ex premier. In precedenza l’ex segretario Pd aveva espresso l’intenzione di misurarsi con il leader della Lega. Una disponibilità ribadita nuovamente: “Certo – ha risposto Renzi a Vespa – Scegliamo la data”.
Il pallottoliere di Matteo Renzi perde colpi. E quella che alla vigilia doveva essere una grande transumanza dal Pd verso nuovi gruppi parlamentari ed un nuovo partito, rischia di trasformarsi in una mini scissione. Numeri alla mano, il Pd conta 162 parlamentari: i renziani alla Camera (contando i fedelissimi e i deputati di Base riformista, la corrente guidata da Luca Lotti e Lorenzo Guerini) sono oltre 60 su 111; al Senato 35-40 su 51 (sempre sommando le due correnti). È sulla base di questo scenario che, dopo essere stato il primo promotore del ribaltone per il governo Pd-M5S, Renzi ha deciso di accelerare l’uscita dal Pd.
Però, subito dopo aver riempito (sotto alle sue aspettative) le caselle nel nuovo governo, alla prova dei fatti l’ex leader dem si è ritrovato con le armi spuntate. Perché anche molti dei suoi scudieri, in primis i toscani, hanno deciso di continuare al battaglia per il riformismo rimanendo «a casa». Due esempi emblematici? Il senatore Dario Parrini, già sindaco della rossissima Vinci, renzianissimo: «L’unico posto dove si può fare una battaglia efficace per un’Italia con più crescita e meno ingiustizie è il Pd — dice —. La mia battaglia riformista continuerò a farla qui, perché non credo che si possa rafforzare il riformismo in Italia se lo si indebolisce nel Pd. E l’uscita senza dubbio lo indebolisce». È azzardata la mossa di Renzi? «Non la condivido, specie nel momento in cui è tornato protagonista». E il sindaco di Firenze Dario Nardella: «Io resto nel Pd. Ci ripensino: divisi siamo tutti più deboli».
Le conseguenze? Il nuovo contenitore politico dell’ex premier rischia di superare a fatica la soglia dei 20 deputati, che alla Camera sono il numero minimo per costituire un gruppo autonomo. Numeri che si riducono tra 8 e 10 al Senato, dove i renziani ortodossi potranno confluire solo nel gruppo misto per questioni di regolamento. Così, nelle ultime 48 ore, Renzi ha sfoderato i pollici e scritto molti sms ad alcuni eletti nella corrente di Base riformista, ma la campagna acquisti interna ha incassato molti no.
«Finalmente, con la nascita del Pd, i riformisti si sono potuti trovare nello stesso partito — dice il deputato Stefano Ceccanti, costituzionalista e anima del vocazione iper maggioritaria della Leopolda —. Il nostro è l’unico grande partito rimasto: si può scalare ed è giusto che una componente liberale di sinistra possa aspirare a tornare a guidarlo». La mossa di Renzi? «Una scelta non all’altezza delle aspettative — aggiunge Ceccanti —. Per cambiare l’Italia serve un grande partito di centrosinistra a vocazione maggioritaria e non due mezzi partiti identitari». Non la pensa così Luigi Marattin, in pole come capogruppo renziano alla Camera: «In questo nuovo quadro politico serve una nuova Terza via, ma siamo lontani da Giddens e Blair — riflette —. Non ce ne andiamo via perché abbiamo litigato: non sbattiamo la porta e assicuriamo pieno appoggio al premier Conte».
Solo la deputata piemontese Silvia Fregolent si fa sfuggire: «Serve più rispetto per ciò che il nostro modo di fare politica ha fatto per il Paese — dice — alla Leopolda valuteremo che fare». Con Andrea Romano, altro fu super renziano, che chiosa: «Traslocare altrove equivale a riconoscere una sconfitta. Sotto la nostra tenda ci sono diversi riformismi. Bandiera rossa? Non ci vedo niente di male: non è l’inno sovietico. Io voglio cantare Bella ciao, O bianco fiore». Tra i renzianissimi che almeno per ora non seguiranno il leader c’è il capogruppo al Senato Andrea Marcucci. Presto potrebbe essere costretto alle dimissioni per mancanza di sostegno nel gruppo.
Quanto ai numeri, “sono più di 40 i parlamentari che stanno con noi. 25 deputati e 15 senatori. Ci sarà un sottosegretario, non due”. Insieme alle ministre Teresa Bellanova ed Elena Bonetti, a seguire Renzi in Italia Viva sarà il sottosegretario Ivan Scalfarotto. Resterà nel Pd invece la sottosegretaria Anna Ascani. “Lo ha deciso lei”, ha precisato Renzi ai cronisti al termine della registrazione di Porta a Porta.
Al Senato ci sono già 8 nomi certi: lo stesso Renzi, Francesco Bonifazi, Teresa Bellanova, Davide Faraone, Ernesto Magorno, Tommaso Cerno, Eugenio Comincini, Laura Garavini. A cui dovrebbero aggiungersi Nadia Ginetti, Leonardo Grimani, Giuseppe Cucca, Mauro Marino, Francesco Giacobbe, Andrea Ferrazzi e Mauro Laus. E siamo a 15 senatori.
Alla Camera, invece, i sicuri sono Giachetti, Nobili, Anzaldi, Carè, Librandi, Boschi, Di Maio, Mor, Marattin, Fregolent, Scalfarotto, Rosato, Migliore, Annibali, Del Barba, Paita, Gadda, De Filippo, Rossi.
Incerti ma, orientati verso il sì, Tabacci e Fusacchia di +Europa. Anche Magi ci starebbe pensando. Incerti del Pd: Noia e D’Alessandro.
“Il governo non ha problemi”, ha rassicurato l’ex premier. “Lo abbiamo fatto apposta per dare lunga vita all’esecutivo”. E Nicola Zingaretti “resta un amico, gli auguro ogni bene, non ho nessuna polemica da fare con lui”.
“Io voglio molto bene al popolo del Pd. Per sette anni ho cercato di dedicare loro la mia esperienza politica. Dopodiché i litigi e le divisioni erano la quotidianità”.
“Il partito novecentesco non funziona più – ha detto Renzi – C’è bisogno di una cosa nuova, allegra e divertente. Noi – ha aggiunto – vogliamo parlare a chi crede nella politica, ma non in politichese”.
“Parlare di scissione dà l’idea di un’operazione di palazzo. Intendiamoci, non facciamo le verginelle. C’è anche quella: è stata un’operazione di palazzo mandare a casa Matteo Salvini”. I parlamentari? “Li ho lasciati tutti a Zingaretti”.
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