È ufficialmente scattata la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, con dazi (per ora) di 34 miliardi di dollari, ma con la minaccia del Presidente Trump di arrivare a 500. Dazi che riguardano anche l’agroalimentare, un settore di grande importanza economica. E proprio in Italia, nei giorni scorsi, il ministro Salvini ha annunciato misure per bloccare le importazioni di riso asiatico e più generalmente di prodotti del cosiddetto “italian sounding”, che suonano cioè come italiani ma nulla hanno a che fare col nostro Paese, formaggi come parmesan e mozzarille, o i noti pomodori cinesi che giungono ogni giorno a tonnellate nei nostri porti.
Il tema del business e della contraffazione agroalimentare parte da lontano, ed è una questione globale. Di sicuro non limitata all’Italia. Infatti, quando nel maggio 2011 in uno dei tanti sterminati campi di mais che caratterizzano il paesaggio dell’Iowa il responsabile della coltivazione scoprì per caso un cinese intento a sottrarre campioni di piante e chiamò l’Fbi, il mondo si è trovato di fronte al primo vero e conclamato caso di spionaggio agricolo dell’era industrializzata.
La coltivazione della Dupont, oggetto dello spionaggio cinese, stava sperimentando una nuova varietà di mais ad alta capacità nutritiva e forte resistenza. Da allora quasi una dozzina di agenti cinesi sono stati arrestati negli Usa proprio con l’accusa di sottrazione di semi brevettati o oggetto di ricerca sperimentale. Una nuova frontiera delle attività di spionaggio, che fino ad oggi avevano fatto concentrare l’occidente più che altro verso la protezione dei segreti tecnologici industriali e dei sistemi di difesa militare.
Il problema dell’alimentazione non riguarda, chiaramente, solo la Cina. Alla fine del secolo l’Università di Washington ha stimato, in un accurato ed innovativo studio guidato dal sociologo Adrian Raftery, che la popolazione mondiale raggiungerà gli 11 miliardi, cancellando quindi le previsioni che ipotizzavano una crescita molto più contenuta. Il più alto tasso di crescita riguarderà l’Africa (solo in Nigeria si stima di passare da 200 milioni di abitanti a 900 milioni) ma ovviamente, guardando a Est, anche Cina e India.
Secondo un rapporto della Banca Mondiale le ondate di violenza legate alla scarsità di cibo e all’impennata dei prezzi dei generi alimentari minacciano la stabilità politica di 36 nazioni in quasi tutti i continenti. Solo per citare alcuni paesi che negli ultimi anni hanno visto disordini identificabili con le cosiddette “rivolte del pane”, troviamo Egitto, Camerun, Costa d’Avorio, Burkina Faso, Etiopia, Indonesia, Madagascar, Filippine e Haiti. Ed anche diverse regioni della Cina.
Ma è proprio il processo di modernizzazione e di occidentalizzazione dei paesi come la Cina che comporta il maggiore mutamento geopolitico e geoeconomico, soprattutto per quelli che saranno gli scenari nei prossimi decenni. Questo paese, la cui popolazione oggi rappresenta circa un quinto di quella mondiale, rappresenta un fattore importante in termini di trend di sviluppo, un vero esempio e modello (nel bene e nel male) per molti altri paesi in crescita non solo nell’Asia.
La corsa all’occidentalizzazione ha stravolto la dieta cinese, aumentando notevolmente il consumo di carne. Come riuscire a sfamare tutta la popolazione cinese è diventato un problema non solo nazionale, ma globale. Con la corsa all’industrializzazione centinaia di ettari di terreno votati alle colture dei cereali sono stati cementificati, per fare spazio a fabbriche e città. Di conseguenza i cereali, che servono ai cinesi per sfamare gli animali da trasformare in cibo, sono acquistati all’estero, sottraendoli ad altre popolazioni.
La Cina del XXI secolo è il paese delle contraddizioni, dove l’esplosione del libero mercato coesiste con la politica del Partito Comunista, dove i grattacieli di ultima generazione si affiancano alle case a un piano degli “hutong”, dove i figli guadagnano anche dieci volte lo stipendio dei padri, dove la ricchezza delle città si scontra con la sconvolgente povertà delle campagne.
La crescita della nazione cinese è alla base dell’affermarsi di una nuova geoeconomia globale. I molti trend che stanno cambiando e cambieranno il mondo hanno come protagonista indiscussa proprio la Cina. Tra questi trend vi sono in più casi dirette o indirette connessioni alla nutrizione e alla sicurezza alimentare. Come le carni agli ormoni prodotte in Cina e messe nel mirino dal Ministro Salvini per bloccarne l’importo.
Alcuni esempi. Nel 2030 la popolazione di Cina ed India sarà 2,7 volte superiore a quella di Europa, Russia e Nord America, con tutte le conseguenze relative alla necessità di approvvigionamento di risorse alimentari. Goldman Sachs sostiene che nel 2040 il Pil dei cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina) supererà di gran lunga quello dei Paesi del G6 (Usa, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia).
Attualmente la Cina è il primo consumatore mondiale di carne. Già nel 2013, secondo l’International food and policy research institute, i consumi cinesi di carne hanno superato quelli complessivi di Stati Uniti ed Unione Europea. A causa del maggiore consumo di carne, le importazioni di semi di soia da parte della Cina sono elevatissime e crescenti. Nel 2007 sono state pari al 15 per cento della produzione mondiale e nel 2018 le stime indicano che saranno pari a un terzo di tutta la produzione globale.
Ciò che più preoccupa è che l’aumento demografico di 2 miliardi di abitanti entro il 2050 si concentrerà quasi totalmente in paesi che hanno una visione “simbolica” del cibo associato al progresso. E quindi la domanda di carne diverrebbe fisicamente insostenibile, aumentando dalle attuali 220 milioni di tonnellate a oltre 460 milioni. Con conseguenze drammatiche anche sulla crisi idrica. Per produrre un chilo di carne di bovino sono necessari 15 mila litri d’acqua (irrigazione delle coltivazioni per produrre i mangimi, abbeveraggio, lavaggio e macellazione ecc.). Per produrre un chilo di pane bastano mille litri d’acqua. Si è molto parlato negli anni scorsi di “guerre dell’acqua”, possiamo solo provare a immaginare lo scenario devastante e le conseguenze sociali di una crisi idrica globale se i consumi di carne dovessero seguire le stime citate.
Per sopperire alle necessità degli allevamenti nel mondo si utilizzano oggi circa il 50 per cento dei cereali prodotti, ma gli animali trasformano in cibo soltanto il 10 per cento di quello che ricevono, un modello anche economicamente fallimentare, uno stile di vita che se applicato universalmente rappresenterà una crisi mondiale senza precedenti con risvolti sulla sicurezza e sulle tensioni sociali di molti paesi ed intere regioni del pianeta.
Cosa comporti tutto questo per un gigante come la Cina, è facilmente intuibile. Come del resto è intuibile la geopolitica coloniale che Pechino sta mettendo in atto da diversi anni per far fronte alle esigenze alimentari.
David Hale, economista americano consulente del Dipartimento della difesa, ha acutamente ricordato infatti come “la Cina sia destinata a diventare una superpotenza militare con una proiezione planetaria, per le stesse ragioni per cui lo diventarono la Gran Bretagna nel XIX secolo e gli Stati Uniti nel XX secolo. Per assicurarsi, cioè, l’accesso alle vie di approvvigionamento delle materie prime, di cui sta diventando la prima consumatrice”.
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