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Conte rinuncia, Mattarella pone veto su Savona e su politiche anti euro

Conte rinuncia, Mattarella pone veto su Savona e su politiche anti euro

Giuseppe Conte e Paolo Savona

È durata appena quattro giorni la parentesi dell’incarico che il capo dello Stato ha affidato a Giuseppe Conte per la formazione di un governo M5s-Lega. Il no di Mattarella a Savona all’Economia (“decisione che non ho preso a cuor leggero”, ha chiosato il presidente), è stato lo scoglio sul quale è inciampato l’ex premier incaricato. Ora è in atto uno scontro istituzionale con M5s e Lega che tuonano contro il Colle.

Il più duro è proprio Luigi Di Maio. “La scelta di Mattarella è incomprensibile”, ha attaccato. “La verità è che non vogliono il M5s al governo, sono molto arrabbiato ma non finisce qui”, minaccia. Il clou quando, ospite di Fazio, affonda il colpo: “Chiedo l’impeachment per Mattarella”, ipotesi già ventilata da Giorgia Meloni.  I pentastellati ribadiscono la loro posizione in serata in un comizio a Fiumicino, con Alessandro Di Battista al fianco del capo politico del movimento: “La democrazia è stata abolita, Savona punito per un reato d’opinione. Prima di tornare al voto bisogna mettere sotto accusa Mattarella per attentato alle Istituzioni”. E ancora: “Era una cosa premeditata, far fallire il governo del M5S e della Lega. Difficili ora aver fiducia nelle istituzioni e nelle leggi dello Stato”.

È finito il tentativo di Giuseppe Conte. “Il professore ha rimesso il mandato”, ha detto il segretario generale del Colle, Ugo Zampetti subito dopo le 20. Dunque, il premier incaricato rinuncia all’incarico.  Conte alla fine ha ringraziato Di Maio e Salvini per avere indicato il suo nome. Ha assicurato di essersi impegnato fino all’ultimo. Pochissime parole, in un clima tesissimo. Sono finite così ore drammatiche per la crisi politica. Nessun governo a 83 giorni dal voto: il periodo più lungo nella storia della Repubblica. Il presidente del Consiglio incaricato, Giuseppe Conte, era arrivato alle 19 al Colle. È rimasto un’ora faccia a faccia con Sergio Mattarella. Ma è stato tutto inutile. Già nel pomeriggio la trattativa per la formazione del governo era apparsa disperata. E il nodo principale è stato sempre quello del ministero dell’Economia: con il nome di Paolo Savona che non ha superato l’esame del Colle. Poco dopo le 18, i due leader della Lega e del M5s, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, erano saliti al Quirinale, probabilmente per un’ultima mediazione. Segno che la soluzione era ancora lontanissima. Anzi, che si andava verso la fumata nera. Con fonti Cinquestelle che dicevano: “Mattarella ha posto il veto su Savona”.  Mentre Salvini, in un comizio – mentre era ancora in corso il faccia a faccia di Conte con il capo dello Stato – attaccava: “I nostri ministri avrebbero voluto lavorare. Per l’Italia decidono solo gli italiani. Se siamo in democrazia si torna a votare”. E su Savona: “Se un ministro dà fastidio a certi poteri, vuol dire che è il ministro giusto. Chi non vuole il governo lo spieghi agli italiani”. Insomma, l’attacco al Quirinale è già partito. Quando Conte non ha ancora rinunciato all’incarico, i toni sono già quelli della campagna elettorale. Mentre dal Quirinale si fa presente che in Costituzione non esiste l’istituto del veto e che semmai, in questo caso, ci si trova davanti a un irrigidimento delle forze politiche sulla squadra di governo.

Il presidente della Repubblica, dunque, non ha ceduto all’imposizione di Paolo Savona al dicastero dell’Economia. L’obiettivo era sciogliere il nodo politico sul ministero dell’Economia che i due leader volevano affidare al professor Savona. Paolo Savona in mattinata aveva provato a sbloccare l’impasse sul suo nome. In un comunicato aveva detto: “Le mie posizioni sono note. Voglio un’Europa diversa, più forte ma più equa”. Un tentativo di smontare le accuse di antieuropeismo, legate alle sue prese di posizione critiche sull’euro e sul ruolo della Germania, fonte di preoccupazione al Quirinale. Savona parla di “polemiche scomposte” maturate nelle ultime ore. E fa riferimento al contratto di governo tra Lega e M5S. Con la richiesta all’Unione Europea di una “piena attuazione degli obiettivi stabiliti nel 1992 con il Trattato di Maastricht, confermati nel 2007 con il Trattato di Lisbona, individuando gli strumenti da attivare per ciascun obiettivo”. Insomma, ancoraggio ai trattati europei. Poi auspica l’attribuzione “al Parlamento europeo di poteri legislativi sulle materie che non possono essere governate con pari efficacia a livello nazionale”. Propone di “creare una scuola europea di ogni ordine e grado per pervenire a una cultura comune che consenta l’affermarsi di consenso alla nascita di un’unione politica”. Sempre facendo riferimento al contratto, parla di un impegno a ridurre debito pubblico e deficit “non già per mezzo di interventi basati su tasse e austerità”, bensì “attraverso il tramite della crescita del Pil”.

Nelle ultime ore erano circolate molte ipotesi di mediazione. Una riguardava lo spacchettamento del ministero dell’Economia: da una parte le Finanze, dall’altra il Bilancio. Anche se la Lega aveva fatto resistenza. Si era parlato anche di un ruolo di viceministro dell’Economia affidato alla pentastellata Laura Castelli, con ampie deleghe: un modo per depotenziare i poteri di Savona. Un’ipotesi, questa, poi smentita da fonti M5s. Nel corso della giornata erano arrivate alcune dichiarazioni di fiducia sull’esito della trattativa. Danilo Toninelli: “Mattarella ha tenuto un percorso assolutamente lineare non essendo il presidente della Repubblica un organo di governo, ma un organo di garanzia e di unità nazionale”. E lo stesso Davide Casaleggio aveva espresso ottimismo: “Piena fiducia per una soluzione ottimale”. Ma erano, evidentemente, solo frasi di circostanza. Su Savona, almeno fino a ieri sera, la Lega si diceva indisponibile ad arretramenti: “Se salta tutto, ci sarà una frattura tra il popolo italiano e i palazzi”, aveva detto Salvini. E così è stato. Lo scontro è stato portato alle estreme conseguenze.

Giuseppe Conte, dopo l’annuncio del Quirinale sulla rinuncia al mandato, ha pronunciato un telegrafico discorso: “Ringrazio gli esponenti delle due forze politiche – ha detto – per avere fatto il mio nome per formare il governo di cambiamento. Vi posso assicurare di avere profuso il massimo sforzo, la massima attenzione per adempiere a questo compito”. Già prima della rinuncia, la Lega aveva puntato l’indice contro il Quirinale. “Abbiamo lavorato per settimane, giorno e notte – ha tuonato Matteo Salvini – per far nascere un governo che difendesse gli interessi dei cittadini italiani. Ma qualcuno (su pressione di chi?) ci ha detto No. Mai più servi di nessuno, l’Italia non è una colonia. A questo punto, con l’onestà, la coerenza e il coraggio di sempre, la parola deve tornare a voi”.

In passato si sono già registrati dei veti su alcuni ministri, con l’economista Paolo Savona quindi in ottima compagnia. Precisiamo subito che tutto nasce dall’articolo 92 della Costituzione che dà pieno potere al presidente della Repubblica nella nomina non solo del presidente del Consiglio, ma anche della sua squadra di ministri. Giusto per richiamare i casi storici più famosi: Sandro Pertini, presidente della Repubblica, disse no a Francesco Cossiga, premier incaricato, su Clelio Darida alla Difesa (1979); Cossiga, al posto di Darida, mise alla Difesa Attilio Ruffini. E governò per sette mesi. Oscar Luigi Scalfaro, presidente, disse di no a Silvio Berlusconi su Cesare Previti alla Giustizia (1994); Berlusconi nel ’94 alla Giustizia mise Biondi, e spostò Previti alla Difesa. E governò per otto mesi. Carlo Azeglio Ciampi disse di no ancora a Silvio Berlusconi su Roberto Maroni alla Giustizia (2001); Berlusconi, al posto di Maroni, mise alla Giustizia Castelli, che era meno noto del primo per il suo estremismo, e governò per quattro anni. Giorgio Napolitano disse di no a Matteo Renzi su Nicola Gratteri alla Giustizia (2014). Renzi, al posto di Gratteri, propose come ministro Andrea Orlando. E governò per tre anni. Negli altri casi il veto non suscitò lo scalpore di oggi, probabilmente perché quello di Mattarella è avvertito come squisitamente politico, mentre nei precedenti la decisione era dovuta a motivi di opportunità.

Mattarella ha posto un veto su Paolo Savona, chiedendo a Salvini e Di Maio di fare il nome di un ministro politico della Lega, Giancarlo Giorgetti, visto che già il Presidente del Consiglio non era un politico. Salvini ha pensato di poter rispondere di no al Capo dello Stato, ha intimato a Mattarella che senza Savona saltava il governo, e così Mattarella ha dato il ben servito al professor Conte, nel pieno rispetto dell’art. 92 della Costituzione, che recita: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Lo stesso Di Maio, era ben conscio di questo potere del Capo dello Stato: “Sui ministri non c’è nessuna discussione in atto perché i ministri li sceglie il presidente della Repubblica. Non fate retroscena sui ministri perché non c’è niente“.

Sul futuro ministro dell’Economia è intervenuto anche quello uscente. “Il dibattito vero – ha spiegato Pier Carlo Padoan alla trasmissione Mezz’ora in più su Raitre – non ha a che fare con la figura di Savona, ma con la politica economica strategica fondamentale quale combinato disposto del contratto di programma, chiaramente insostenibile sulla politica di bilancio, e il fatto che esponenti della maggioranza non escludono un piano B. E cioè che di fronte alle pressioni dell’Europa si debba uscire dall’Europa. Questo è il nodo che va sciolto”.

In difesa del Colle erano intervenuti i vescovi italiani. Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della conferenza episcopale italiana (Cei), aveva lanciato un monito. “Ho fatto fatica in questi 83 giorni – ha detto a ‘1/2 ora in più sui Raitre – a distinguere il dialetto pre-elettorale, che ci sta tutto, dalla grammatica semplice ma impegnativa della Costituzione. Troppe volte ho visto confondere l’una con l’altra, ho visto attribuirsi prerogative che la Carta non prevede”. “Non è solo il problema del professor Savona – ha specificato Galantino – ma è il clima che mi preoccupa”. Sugli attacchi al Quirinale è intervenuto anche Avvenire, il quotidiano della Cei. Il direttore, Marco Tarquinio, nell’editoriale di prima pagina si augurava: “Salvini e Di Maio ritrovino il senso del limite. Nessun leader degno di questo nome e di una decente democrazia, può permettersi di tentare di imporre, con una sorta di tonante e assurdo assedio al Quirinale, le sue pretese riguardo a decisioni e nomine”. Lo scontro sul Colle d’altra parte è appena cominciato.

4 risposte »

  1. Un carteggio, storico. Quello del 2014 tra l’allora premier incaricato Matteo Renzi e l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. E’ quanto ha in tasca il segretario dimissionario del Pd mentre si avvia per gli studi di ‘Otto e mezzo’ su La7. Il carteggio lo mostrerà: a difesa delle prerogative del presidente della Repubblica, proprio nei giorni in cui Sergio Mattarella è sotto il fuoco di Lega e M5s per il suo veto su Paolo Savona al ministero dell’Economia.

    “Napolitano mi ha cambiato due ministri su 16, ci sono andato due volte al Colle per formare il governo”, racconta Renzi. “Questo per dire che il presidente può e deve intervenire sulla formazione del governo: lo dice la Costituzione e anche i precedenti. Il mio, in questo caso”.

    Renzi e il Pd si preparano ad una campagna elettorale che non si aspettavano. E per ora sembra che il partito stia riuscendo a mantenere una linea unitaria. Almeno nel dichiararsi pronto alle elezioni a luglio, se questo sarà il caso come sembra, dopo che Carlo Cottarelli ha lasciato a sorpresa il Quirinale senza definire la squadra di governo sulla quale a questo punto si allungano serie ombre.

    Dalle parti del Pd gira la data del 22 luglio, che sarebbe un modo per evitare il voto a fine luglio, quando l’Italia è ufficialmente in vacanza. Certo, servirebbe una modifica al dispositivo sul voto all’estero, che prevede almeno 60 giorni di tempo dalla data dello scioglimento (non ancora avvenuto) e le urne. Ma questo si vedrà.

    Il punto è un altro. In questi giorni di caos totale sulla pelle della Repubblica, nel Pd pare sia scoppiata la pace. “Nessuno è interessato a farsi del male, siamo tutti sulla linea del buon senso, visto che intorno la situazione è davvero grave”, dice Renzi con i suoi.

    Solo che in vista del voto anticipato ci sono ancora dei nodi da sciogliere. C’è l’idea di presentarsi al voto con un ‘listone unitario repubblicano’. Idea lanciata dal ministro Carlo Calenda, idea che piace a Renzi e anche a Paolo Gentiloni e Marco Minniti. Sarebbe un modo per “rinnovare” l’immagine del partito sconfitto il 4 marzo, presentarsi al voto per contrastare lo “sfascismo” di Lega e M5s. Naturalmente il listone sarebbe aperto a personalità della società civile. Cosa che preoccupa tanti nel Pd, quelli che temono di non essere rieletti.

    L’alternativa è ripresentarsi con un’alleanza a tre: Pd, una lista centrista e una di sinistra (Leu o quello che resta). Ma a questo punto ci sarebbe poco tempo per rivoluzionare le liste presentate il 4 marzo. E comunque è sempre la direzione che le deve approvare: lì la maggioranza sembrerebbe ancora renziana.

    Ad ogni modo, sia nell’uno che nell’altro caso l’idea di Renzi è di giocare una campagna elettorale “all’attacco”. Tutta puntata sul “sì all’euro”, perché la convinzione è che, malgrado la propaganda giallo-verde, la maggioranza degli italiani sia a favore della moneta unica e spaventata dalle conseguenze di un’uscita dall’euro. Il punto sarà trovare la chiave per non giocare di rimessa contro la fortissima ondata anti-europeista che Salvini sta cavalcando. Un bel rebus.

    Si vedrà. Al momento l’obiettivo Dem è di arrivare al fatidico 25 per cento di consensi, obiettivo mancato il 4 marzo scorso (la coalizione arrivò al 23 per cento). O magari vicini al 30 per cento: un sogno.

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