
Nella scuola n.94 “Ellada” di via Institutska, la gente entra ed esce nella tranquillità di una normale mattina di voto e di sole. Tanya, una di loro, lancia un’occhiata storta in direzione del Maidan, lì vicino, verso le barricate, i lumini impolverati e gli accampamenti degli irriducibili che si ostinano ad affermare il ruolo di guardiani arrabbiati di una protesta ormai lontana. «Ma quando se ne vanno? – sbotta Tanya -. Abbiamo passato l’inverno a girare alla larga perché qui c’erano loro. È tempo di andare avanti». Lei, come il 55,9% degli elettori secondo i primi exit polls, ha votato per Petro Poroshenko.
E Poroshenko è la speranza che per l’Ucraina possa aprirsi un’era nuova: e anche se ora appaiono come mondi diversi, è stato il Maidan ad accenderla. Altissime le aspettative appuntate su una persona apparsa come la carta vincente dal nulla, da zero al 40% in tutti i sondaggi preelettorali. La prima aspettativa, comunque, l’oligarca dei cioccolatini Roshen l’ha già centrata: la vittoria al primo turno, data per certa anche senza attendere i risultati definitivi. E senza perdere tempo, a pochi minuti dalla chiusura dei seggi, Poroshenko è apparso nel proprio quartier generale e in tv per ringraziare. Ha parlato in ucraino, come sempre con il suo tono calmo e l’espressione tranquilla, e ha detto che l’Ucraina sarà una potenza unita, non federale e vicina all’Europa. E porterà la pace nell’Est.
Lo chiamano Willy Wonka, per via della sua fabbrica di cioccolato. A differenza degli altri oligarchi si è costruito quella e una fortuna da 1,3 miliardi di dollari da solo, anche se il padre – che, secondo certe voci, avrebbe un cognome diverso, Walzman – era un “zekovik”, imprenditore agrario di era sovietica. Ma Poroshenko ha anche altro alle spalle: ha servito come ministro sotto Yulia Tymoshenko e con l’ex presidente Viktor Yanukovich, ha guidato la Banca nazionale e, accanto a Roshen, possiede anche un impero editoriale, un cantiere navale (in Crimea) e fabbriche di auto e moto. È stato lui, e ne va fiero, l’autore dell’Accordo di associazione all’Unione Europea che ha acceso la crisi in cui è precipitata l’Ucraina.
Ora spetta a lui risolverla. Non avrà neppure un istante per festeggiare, non può, di fronte al quadro offerto dalla giornata di ieri. Le code di elettori nelle scuole e nelle palestre di Kiev e di Odessa, uomini armati e mascherati che prendono a calci e distruggono le urne a Donetsk: due mondi diversi, uno impegnato a distruggere ciò che l’altro cercava di costruire. «Per prima cosa – aveva detto Poroshenko votando a Kiev – dovremo avviare un dialogo diretto con gli abitanti del Donbass, di Donetsk e di Luhansk, e portare la pace a tutti i cittadini ucraini». Citando i dati sull’affluenza, aveva aggiunto che i tentativi di sabotare le elezioni «sono falliti».
In realtà, lo Stato che Poroshenko avrà il compito di riprendere in mano si è letteralmente sfasciato nell’Est dove i separatisti – consapevoli che il successo del voto gioca contro di loro – si sono scatenati. «La violenza dei ribelli è sfuggita a ogni controllo», denuncia Hugh Williamson, responsabile di Human Rights Watch per l’Europa. I funzionari elettorali di Donetsk e Luhansk raccontano di raid contro i seggi, attrezzature distrutte, personale minacciato o rapito. Nel centro di Donetsk e Luhansk nessun seggio elettorale ha potuto aprire; nelle regioni si parla rispettivamente di 426 sezioni aperte su 2.432 e 400 su 1.476.
Se al risultato finale mancherà la voce di circa il 15% degli elettori, la grande sfida è riprendere il controllo dell’Est, sia pure per concordare gli assetti futuri del Paese nel senso di una decentralizzazione, come prevede il programma di Poroshenko. Che nello stesso tempo esclude ogni forma di compromesso con chi ha imbracciato le armi a Donetsk. Qui, in piazza Lenin, davanti all’Amministrazione locale occupata da settimane dai filorussi, ieri alcune centinaia di persone si sono radunate per poi marciare sulla residenza di Rinat Akhmetov, il grande oligarca di Donetsk che da sostenitore dei separatisti si è trasformato in loro grande nemico, invitando i propri dipendenti (300mila) a ribellarsi contro l’occupazione. Non potendo votare nella propria città, Akhmetov era volato a Kiev.
Pochi minuti dopo la proclamazione della vittoria di Poroshenko, in tv è apparsa anche la grande sconfitta, Yulia Tymoshenko, ferma al 12,9% secondo gli exit polls. «È la sua fine», dice un osservatore a Kiev, spiegando che i due anni trascorsi in carcere le hanno fatto perdere il contatto con la realtà. Ma nei giorni scorsi, a Odessa, due ragazzi che distribuivano volantini avevano ammesso che la gente è stanca di Yulia, dei sospetti di corruzione, delle promesse mai mantenute. «Non hanno più fiducia in lei», dicevano. E infatti per diverso tempo, davanti alla loro tendina bianca presso la Cattedrale, non si è fermato nessuno.
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